Qualche riflessione sul “traduttore fizionale” [a cura di Ilaria Biondi]
Abito qui, sotto questo tratto nero. È il mio posto, la mia dimora, la mia tana. Le pareti dipinte di bianco sono coperte da sottili tratti di lettere nere, una specie di irregolare ondulazione, di cangiante carta da parati. Benvenuto, mio caro lettore, accomodati pure oltre la soglia del mio antro. Non è certo spazioso come quello del mio vicino di sopra, ma in sua assenza accolgo qui i visitatori sviati da questa inspiegabile diserzione. So bene che eri venuto a trovare lui, caro lettore, e sei cascato qui da me. Dovrai accontentarti. Io sgomito in questo angusto spazio. Impilo queste righe affinché la mia cantina non diventi una bara, la mia stiva una tomba.[1]
Traduttori-personaggi ed eroine-traduttrici. Il traduttore esce dalla sua stanza buia, si scrolla di dosso per qualche istante la coperta pesante della solitudine, scuote i vestiti dalla polvere d’ombra dell’onnipotente e onnipresente Autore, si schiarisce la voce e prorompe in un canto che è suo, per una volta almeno, suo e solo suo!
Traduttori che si raccontano, che si muovono fra le pagine rendendo mobile e a tratti impercettibile il confine sottile che separa loro, figure di carta e parole, dai traduttori in carne e ossa, che di carta e parole quotidianamente vivono, sognano, sperano e si disperano.
In questo articolo faremo qualche riflessione sulla figura del “traduttore fizionale” a partire da Le traducteur fictif, personnage de la littérature québecoise, di Anne Bussières Gallagher (Mémoire de Maîtrise).
I racconti di traduzione hanno una lunga storia. Antonio Lavieri, nel suo considerevole studio Translatio in Fabula,[2] rintraccia il capostipite di questa tipologia di narrazione nel Don Chisciotte: non finge infatti Cervantes che il suo libro sia una traduzione dall’arabo di una misteriosa Historia de don Quijote de la Mancha, escrita por Cide Hamete Benengeli e fortunosamente rinvenuta a Toledo? Negli ultimi decenni, senz’altro complice la nascita della traduttologia e l’incremento dato alle riflessioni sulle pratiche del tradurre, la narrativa si interessa con frequenza crescente alla figura del traduttore e al suo mestiere, tanto che qualche critico parla addirittura di un genere letterario a sé stante, che annovera tra le fila recenti successi come La traduttrice di Rabih Alameddine,[3] I negri del traduttore di Claude Bleton[4] e il succitato La vendetta del traduttore di Brice Matthieussent, per limitarci a pochi, ma significativi esempi. Parimenti e in parallelo a questa fioritura rigogliosa si sviluppa una letteratura critica – benché ancor oggi non troppo nutrita – che indaga fra le pieghe di romanzi e racconti interrogandosi sulla figura del traduttore fizionale (termine che utilizza Lavieri nel suo studio e il cui utilizzo si fa risalire a Cesare Segre) e mettendolo in relazione alla riflessione teorica sulla traduzione: conferenze di rilevanza internazionale come quella tenutasi nel 2011 presso l’Università di Vienna dal titolo Transfiction. Fictional Translators in Literature and Film, o contributi di spessore che si muovono fra i meandri della letteratura mondiale (come il già citato Lavieri, che prende in esame testi di Borges, Calvino Cortazar, Fuentes, ma anche di Nicole Brossard, Abdelkebir Khatibi, Erik Orsenna, Matthew Pearl, Pablo De Santis e John Crowley), o che focalizzano l’attenzione su aree linguistico-letterarie ben definite e circoscritte, come le ricerche del traduttore e traduttologo Jean Delisle, attento e lungimirante studioso della produzione narrativa del Québec, che personalmente trovo di particolare interesse dato il mio penchant per le letterature francofone.
Non potevano, pertanto, non destare la mia attenzione le indagini contenute nel mémoire de maîtrise del 2010 di Anne Bussières Gallagher Le traducteur fictif, personnage de la littérature québecoise,[5] che si innestano sul lavoro pionieristico di Delisle. Questo testo brillante, nel quale mi sono imbattuta curiosando in rete,[6] dà un apporto pregevole alla ricerca sul fictional translator e sul suo rapporto con il traduttore reale, evidenziando in particolare problemi e pregiudiziali che gravano su quest’ultimo, in primis la diffidenza nei confronti del suo operato, in linea con l’antico adagio popolare italiano Traduttore traditore[7], a indicare il pericolo di perdita che si registra nel passaggio dalla lingua di partenza a quella d’arrivo. Non dimentichiamo che il traduttore è un lettore molto speciale, in grado di appropriarsi del senso profondo del testo, “potere” questo che viene percepito come potenzialmente aggressivo perché può condurre a uno snaturamento, a una manipolazione del testo di partenza, la cui forma più estrema è l’addomesticamento, che consiste nello smorzare il carattere esotico del testo originale per conferire al testo tradotto il grado massimo di leggibilità, trasparenza e familiarità.[8] La constatazione che oggi ancora il traduttore sia una figura che vive nell’ombra sacrale dell’autore e che il suo operato non sia ancora pienamente valorizzato (basti pensare all’assenza del suo nome in copertina) la dice lunga sull’impatto di siffatto pregiudizio sull’immaginario collettivo.
Anne Bussières Gallagher analizza in che misura i protagonisti dei romanzi costituenti il corpus da lei preso in esame[9] si confrontino, con scelte ed esiti differenti, con l’archetipo del traduttore-personaggio delineato in diverse opere appartenenti alla letteratura mondiale: l’ossessione per il proprio mestiere e la condizione di sottomissione e l’isolamento, che implica una forma di invisibilità[10] e che fa spesso di lui un emarginato.
Nella letteratura quebecchese il traduttore-personaggio fa la sua entrata piuttosto di recente, a partire dagli anni Cinquanta. Prima di quella data esso compare di rado (quantomeno in qualità di protagonista) e, quando accade, la traduzione viene in genere presentata in termini denigratori, alla guisa di un lavoro accessorio, logorante e scarsamente redditizio. Dagli anni Sessanta si moltiplicano le figure fizionali dei traduttori, che cominciano a essere descritti in maniera più dettagliata e realistica, distaccandosi in parte dai consueti e abusati cliché.
L’autrice, forte di queste premesse, si occupa nel suo studio di testi che coprono il periodo che va dagli anni Settanta ai primi anni 2000, adottando pertanto una prospettiva diacronica che le consente di cogliere una certa evoluzione nella rappresentazione della figura del traduttore-personaggio.
L’analisi condotta nel mémoire rivela quanto i traduttori protagonisti dei quattro romanzi riflettano, in maniera enfatizzata, quando non esasperata (e non di rado venata di ironia), quei pregiudizi che tradizionalmente gravano sul capo dei traduttori: precisione maniacale, aspirazione alla perfezione e rigore ossessivo che sfociano anche nella follia; esistenza isolata che sottende un vitale bisogno di tranquillità ma che è anche metafora dell’incapacità di vivere rapporti equilibrati, improntati ad un sereno confronto con gli altri; invisibilità professionale (e conseguente mancanza di prestigio) acuita e amplificata dal loro comportamento asociale e solitario.
Tuttavia, i traduttori nei quattro romanzi presi in esame non sono soltanto esseri ossessionati, isolati e marginalizzati, ma vengono anche riabilitati dai rispettivi autori.
Con la sola eccezione di Eléonore, l’eroina del romanzo di Hélène Rioux Traductrice de sentiments, gli altri tre traduttori (Teddy di Les Grandes Marées, Donatien di Les obsédés textuels e Marine di La traduction est une histoire d’amour) difendono con fierezza il loro mestiere; il personaggio di Delisle in particolare glorifica il ruolo culturale e sociale della traduzione, lottando accanitamente contro invisibilità e pregiudizi e assumendo su di sé la nobile missione di vendicare i traduttori.
La studiosa ci invita poi a riflettere sul fatto che, oltre alla scelta stessa di creare un personaggio traduttore, anche l’utilizzo di determinate modalità narrative, aventi come obiettivo di dare al traduttore la parola nel romanzo consentendogli di esprimersi sul proprio mestiere, è un modo per contribuire a fare uscire i traduttori dal ghetto dell’invisibilità. Hèlène Rioux, il cui romanzo viene pubblicato nel 1996, è la prima all’interno del panorama letterario del Québec a dar voce a una traduttrice dall’interno, attraverso la narrazione omodiegetica, tecnica che produce un effetto di umanizzazione del traduttore, spogliandolo di quell’aura di mistero che lo rende un essere avulso dal mondo dei comuni mortali. Qualcosa di analogo si riscontra anche nel personaggio di Marine, creato dalla penna di Poulin. Non così invece per Teddy e Donatien.
Altra differenza significativa che l’autrice riscontra tra le due traduttrici da un lato (Eléonore e Marine) e i due traduttori dall’altro (Teddy e Donatien) è l’evoluzione in positivo delle due donne, che lentamente escono dal proprio ermetismo, aprendosi in maniera luminosa all’altro, alla condivisione, laddove i due uomini rimangono prigionieri del proprio isolamento e di una disperante solitudine (che nel caso di Donatien diventano parossistici, sprofondandolo nella follia).
Si evince pertanto, ci suggerisce Anne Bussières Gallagher, un’evoluzione del traduttore fizionale a partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con la trasformazione della percezione che gli scrittori hanno di traduzione e traduttore. Lo stesso Poulin rappresenta i suoi due traduttori in maniera molto differente, separati come sono da quasi trent’anni di distanza, essendo Les Grandes Marées del 1978 e La traduction est une histoire d’amour del 2006.
Negli anni Ottanta, con la nascita della traduttologia e la presa di coscienza dell’indispensabilità del tradurre, la traduzione, dopo secoli di ombra, comincia a essere valorizzata e il mito del traduttore-traditore inizia a sgretolarsi.
Questi sono anche gli anni del passaggio alla postmodernità in Québec, corrente nella quale si inquadrano i romanzi presi in esame nella tesi di Bussières Gallagher. I romanzi postmoderni aventi come personaggio principale un traduttore, a differenza della produzione letteraria precedente che perpetuava l’archetipo del traduttore-traditore e , lo rimettono invece pesantemente in questione, decostruendolo, rappresentandolo in maniera differente (l’apertura che sperimentano i traduttori fizionali di più recente invenzione è sollecitata dalla necessità di spostarsi in un luogo nuovo, altro, non quotidiano, avventura che facilita l’incontro con l’Altro e che li fa sentire meno soli e marginalizzati).
La studiosa chiosa il suo interessante lavoro d’analisi con un’ipotesi stimolante presa a prestito da Jean Delisle, secondo la quale il traduttore fizionale sarebbe l’incarnazione di un aspetto della società del Québec, domanda che rimane aperta, sospesa nel vuoto, a interpellare criticamente noi lettori, sollecitandoci a riflettere una volta di più sull’imprescindibilità del rapporto tra identità linguistica e traduzione, soprattutto nei palcoscenici culturali, sociali e geopolitici in cui convivono diverse comunità linguistiche:
Da un punto di vista più generale è lecito chiedersi se i numerosi traduttori fizionali che popolano la letteratura quebecchese non siano anche, in qualche modo, il riflesso dell’immaginario collettivo quebecchese nei suoi rapporti con l’Altro. Ci si aspetta che il traduttore sia il “servitore di due padroni”, che si sottometta a una duplice fedeltà: fedeltà all’autore tradotto e fedeltà ai lettori. Questa duplice obbedienza, inserita nel contesto sociopolitico canadese, non potrebbe aver forse un particolare valore simbolico? Questa proliferazione di traduttori fizionali […] non potrebbe forse essere un modo per interrogarsi sui rapporti tra francofoni e anglofoni all’interno del paese? Un luogo di cristallizzazione di tensioni larvate tra questi due gruppi linguistici?[11]
[1] Brice Matthieussent, La vendetta del traduttore, VE, Marsilio, 2012 (Titolo originale: Vengeance du traducteur, P.O.L. éditeur, 2009, traduzione di Elena Loewenthal).
[2] Antonio Lavieri, Translatio in Fabula. La letteratura come pratica teorica del tradurre, Roma, Editori Riuniti, 2007.
[3] Bompiani, 2013, traduzione di Licia Vighi.
[4] Voland, 2006, traduzione di Paola Carbonara.
[5] Anne Bussières Gallagher, Le traducteur fictif, personnage de la littérature québecoise, Département des Lettres et Communications. Faculté des Lettre set Sciences Humaines. Université de Sherbrooke, Mai 2010. Il testo integrale è scaricabile gratuitamente al seguente indirizzo: http://savoirs.usherbrooke.ca/bitstream/handle/11143/2640/MR65660.pdf?sequence=1&isAllowed=y
[6] Dalle mie ricerche in rete non risulta che il testo sia confluito in una pubblicazione. Personalmente auspico che
[7] Secondo diversi studiosi questo modo di dire potrebbe avere invece lontane origini francesi, con un Gianfranco Folena ad esempio che lo attribuisce a Joachim Du Bellay.
[8] La studiosa fa riferimento alla ben nota opera del traduttore e traduttologo americano Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility : A History of Translation, nella quale si indica quanto la traduzione debba obbedire a numerosi diktat, vale a dire il mercato del libro, il mondo editoriale e le attese del lettorato, e quanto la strategia traduttiva del domesticating comporti il pericolo di violenza etnocentrica (riflessioni che personalmente accosterei a quelle espresse da André Lefevere in Traduzione e riscrittura. La manipolazione della fama letteraria, a cura di Margherita Ulrych, traduzione di Silvia Campanini, Torino, UTET, 1998). Alla strategia di addomesticamento si contrappone quella del foreignizing (che rientra in quella che Antoine Berman chiama etica della traduzione), pratica che consentirebbe un superamento dello statuto di invisibilità del traduttore, poiché lascia spazio alle differenze linguistiche e culturali del testo straniero.
[9] Les Grandes Marées (1978) e La traduction est une histoire d’amour (2006) di Jacques Poulin (il protagonista del primo romanzo è un traduttore di fumetti che approda su un’isola deserta; il secondo mette in scena una giovane traduttrice che ha la fortuna di incontrare il suo autore preferito, con il quale instaurerà un solido e sincero rapporto di amicizia), Les Obsedés textuels (1983) di Jean Delisle (protagonisti sono due traduttori uno dei quali venera la lingua francese come un oggetto di culto, è malato di “traduttopatia” e scrive un trattato per riabilitare i traduttori), infine Traductrice de sentiments (1996) di Hélène Rioux (romanzo che ritrae una traduttrice che si è sempre occupata di romanzi rosa e la quale si trova, in un momento critico e doloroso della sua vita di donna e madre, a dover tradurre l’autobiografia di uno psicopatico, killer seriale).
[10] Anne Bussières Gallagher chiama di nuovo in causa il già citato saggio di Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility : A History of Translation, che traccia la storia dell’invisibilità del traduttore e della traduzione a partire dal XVII secolo, occupandosi dell’aspetto economico, culturale e letterario della professione traduttiva. Venuti sottolinea quanti elementi concorrano a potenziare questo stato di fatto, in particolare lo scarsissimo spazio dato alla traduzione e al traduttore in sede di recensione, nonché il ruolo preponderante di autore ed editore in termini di contratto d’edizione.
[11] Anne Bussières Gallagher, op. cit., pp. 105-106. Traduzione mia.