Classici da amare #1: “Il ballo”, di Irène Némirovsky
Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
Oggi inauguro la rubrica con la presentazione di un classico che avevo letto in francese e che ho tradotto personalmente in italiano: “Il ballo“, di Irène Némirovsky.
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Sinossi: La protagonista de “Il ballo” della scrittrice francese Irène Némirovsky è Antoinette Kampf, una giovane ragazza che vive in un lussuoso appartamento di Parigi. Figlia di genitori ambiziosi e senza scrupoli, la quattordicenne deve ancora fare il proprio debutto in società. In occasione di una ricorrenza, la famiglia invita tutta la “gente che conta” ad un ballo in grande stile che si terrà nella loro nuova casa, al fine di farsi conoscere e accettare dalla società. Sebbene la figlia ne sia entusiasta, la madre non ha alcuna intenzione di lasciarla partecipare al ballo. Ciò scatena l’odio e la frustrazione della ragazza, la quale mette in atto una crudele vendetta nei confronti della perfida genitrice gettando tutti gli inviti stampati per l’occasione nella Senna. Solo un invito giunge a destinazione: quello della sua maestra di pianoforte, la quale sarà l’unica a presentarsi la sera del ballo, scatenando reazioni di disperazione e sconcerto nella madre della giovane fanciulla.
[ANALISI]
Perché leggere questo classico: la nota del traduttore
“Il ballo” di Irène Némirovsky è un racconto che nella sua scorrevolezza, immediatezza e semplicità riesce a far luce su aspetti della vita umana e delle relazioni interpersonali di costante attualità; dibattiti sempre aperti, che non conoscono tramonti né crisi. Sei capitoli in cui viene messa a nudo l’ipocrisia e la volgarità che caratterizza una classe borghese arricchitasi con le speculazioni, sfruttando a proprio vantaggio il disordine sociale conseguente al conflitto bellico; una classe verso cui la stessa autrice non prova particolare simpatia. In questa storia breve ma emblematica del suo stile, Irène Némirovsky delinea i tratti di uno scontro tra generazioni e tra ruoli che, nel corso del tempo, ha animato altri capolavori della letteratura mondiale. La sua prosa tagliente, a tratti ironica e molto diretta, tratteggia il profilo di una famiglia che, dopo un’attesa lunga undici anni, è ad un soffio dal vedere finalmente realizzata la sua ambizione di ascesa economica e sociale. Undici lunghi anni in cui il piccolo nucleo familiare ha vissuto, in un’insofferenza che vede protagonista in particolar modo l’arcigna Rosine, in un appartamento stretto e buio dietro l’Opéra-Comique di Parigi. Undici lunghi anni in cui la donna ripensava con invidia e rabbia a tutte le persone che vivevano nel lusso e negli agi mentre lei spendeva le sue giornate in quel piccolo buco sporco a rammendar calzini e badare ad una – indesiderata – bambina. Una frustrazione evidente e indomabile quella di Rosine, mai celata né al marito Alfred, verso il quale mostra di non provare grande fiducia, né alla figlia, povera creatura costretta a sopportare i capricci di una madre che sembra non voler crescere, né accettare quella vita che crede di non meritare. Antoinette, figlia infelice e sfortunata di questa famiglia incapace di dimostrarle affetto e sincero interesse, è una ragazza che sta crescendo e che da qualche anno ha intrapreso il cammino che dall’infanzia conduce verso l’insidioso e complicato periodo dell’adolescenza. Una ragazza che, consapevole della sua maturazione, non vuole più esser trattata come un’infante e si mostra impaziente di compiere il proprio debutto in società. Ad opporsi a questo pressante desiderio, di nuovo la controversa figura materna, colpevole dell’infelicità della giovane Antoinette, nonché causa delle sue più intime vergogne. Le sue urla stridule e improvvise, nonostante il passare degli anni, continuano a rimbombarle nella testa, urla che non fanno altro che confermare, nell’antro più profondo del cuore di Antoinette, la sensazione di rigetto che la ragazza sente provenire dalla donna che dovrebbe amarla più di qualsiasi altra cosa al mondo:
«Hai macchiato di nuovo il mio vestito con le tue sudicie scarpe! In castigo, questo ti servirà da lezione, capito? Piccola imbecille!»
I richiami e le intimidazioni in pieno centro, fonte di imbarazzo e immancabili prese in giro dai coetanei
«Vuoi una sberla? Vero?»
– o ancor peggio di fronte ai domestici –
«Come tieni la forchetta?» e «Stai dritta. Cerca almeno di non sembrare gobba».
Tutto ciò non faceva che alimentare l’odio che Antoinette covava in segreto contro quegli adulti, ipocriti e idioti, che in alcune occasioni aveva desiderato addirittura uccidere o sfigurare. Il sentimento di disprezzo e frustrazione conosce l’apice nel momento in cui l’irremovibile Rosine vieta ad Antoinette l’evento a cui la fanciulla desidera partecipare con tutte le forze: il ballo, per l’appunto. L’adolescente, che come accennato si sente già un’adulta e, come tutte le ragazze della sua età, sogna l’amore e il riconoscimento sociale, farebbe di tutto pur di parteciparvi anche solo per uno stentato quarto d’ora. Le danze, l’atmosfera gioviale, gli abiti luccicanti, la musica coinvolgente, gli sguardi interessati degli uomini: l’esperienza a cui Antoinette non vuole rinunciare, e a cui si sente finalmente pronta, non può esserle negata per l’ennessima, assurda, imposizione della madre.
[…] Eppure cosa le costava che anche Antoinette avesse la sua parte di felicità su questa terra?… Oh, mio Dio, danzare una volta, una sola volta, con un bel vestito, come una vera giovane dama, stretta tra le braccia di un uomo… […]
Il ballo, quell’evento a cui avrebbe partecipato tutta la società che contava, l’evento che sarebbe stato sulla bocca di tutti – domestici e gente blasonata – nelle settimane a venire e che avrebbe deciso le sorti di quella famiglia (o meglio, di quella donna) che aspirava soltanto a compiere la propria, trionfale, ascesa in un mondo a cui sentiva di appartenere da sempre. Differente, infatti, l’atteggiamento del marito: un uomo meno impulsivo, più moderato, indifferente ai pettegolezzi della servitù e ai commenti di coloro che appartenevano al suo stesso rango. Un uomo rozzo, al principio estraneo a quel mondo in cui era entrato di soppiatto ma in cui sembrò trovarsi estremamente a suo agio, in cui sapeva sempre cosa fare e come muoversi. È lui, infatti, a metter freno alle ansie ingiustificate di Rosine; è lui a dare direttive su chi mettere in lista e come approcciarsi al variegato gruppo di invitati; è a lui l’unico a mantenere quella calma serafica all’apparenza inadatta ad un momento così delicato, al momento in cui si decidono le sorti di un’intera famiglia.
[…] Invitare tutti: Per il primo ricevimento, gente e ancora gente, quanti più ospiti ti sarà possibile… Al secondo o al terzo, soltanto, si può fare una cernita. Ma questa volta bisogna invitarne a bizzeffe… […]
Nel trambusto materiale ed emotivo che anima padroni e servitù all’indomani del gran ballo, il senso di solitudine della ragazzina sembra aprire in lei una voragine da cui si sente come risucchiata. Egoisti ed ipocriti, tutti, senza alcuna distinzione, sembrano ignorare i sentimenti già fin troppo repressi della giovane Antoinette.
“Si sentiva sola e miserabile, come una cane abbandonato”.
Non si sentiva amata da nessuno; poteva piangere o ridere sotto i loro occhi, non si sarebbero accorti di nulla. Una ragazzina di quattordici anni che, senza remore o rimpianti, si spediva a dormire, si puniva, si riempiva di insulti; una ragazzina sciocca e ancora troppo giovane per presenziare di fronte il gruppo della “gente che conta”. Una madre che vuole relegarla all’infanzia, che vuole che resti bambina perché non possa nuocerle, proprio ora che finalmente può godersi la sua vita di agi. Frutto indesiderato di un matrimonio di interesse, Antoinette vede convergere su di sé l’odio e l’invidia della perfida genitrice che scorge in lei l’immagine di tutto ciò che non può più essere. Ancora giovane, con una vita intera davanti a sé, Antoinette è l’oggetto su cui Rosine sfoga le sue frustrazioni, mostrando la bassezza del suo animo e la povertà del suo cuore.
Una storia, quella di Irène Némirovsky, dal finale inaspettato, che si tinge dei colori cupi della vendetta. Un riscatto non premeditato ma efficace che arriva per quella ragazzina affatto stupida che ha saputo sfruttare al meglio il momento propizio.
Un racconto breve, intenso e coinvolgente, solo all’apparenza scarno, capace di mettere in luce pensieri universali e lasciare al lettore molteplici spunti da cui trarre le proprie, personalissime, considerazioni sul senso dell’esistenza e sull’eterno contrasto tra forma e sostanza, tra apparenza e profondità.
La parola a voi: conoscevate questo classico? Ce ne sono alcuni che vi sentireste di consigliare? Ditecelo, saranno i protagonisti della rubrica nelle prossime settimane!
Annarita Tranfici